Con LucioP ho ri-trovato quel segno che avrei tanto voluto inseguire tra i frame di Adventure Time, da "adulto", e le pagine di Massimo Mattioli su Il Giornalino, quando ero meno di un bambino.
La giusta dose di spregiudicata strafottenza adolescenziale mischiata alla visionarietà post-umana e incarnatesi nel suo Benvenuti a LaLaLand, per Shockdom Edizioni. In due volumi.
Purtroppo non è semplicemente abbastanza, lo dico con egoistica chiarezza all'autore, e ne voglio ancora.
È anche vero che, se infilassi le sue vignette, meglio: icone, sui muri di casa, finirei per non avere più un angolo di spazio libero per nient'altro. E l'effetto psicotropo su chi ci abita sarebbe, forse, eccessivo.
L'ho contattato perché volevo sapere qualcosa della cui natura non sono certo.
Palermo: da milanese di merda con il cuore e il DNA molto più a sud, ho un amore particolarmente profondo per la Sicilia. La prima volta che ho messo piede sull’Isola e, manco a dirlo, a Palermo è stata un'epifania. Retorica mia a parte, dove vivi tu ora e quali sono gli aspetti di Palermo che adori, quelli che ami, gli elementi che ti hanno maggiormente formato e gli odi profondi e manifesti? Se vuoi, raccontami di tre luoghi o situazioni poco conosciute della città che trovi indimenticabili o ne descrivono a dovere l’anima e la sostanza.
Vivo a Roma da quasi cinque anni ma il mio rapporto con quella città continua ad essere decisamente viscerale. Sia perché Palermo è di per sé una città di viscere, organica, ma anche perché non smette mai di divertirmi. E non parlo di divertimenti notturni, di chiasso e rituali di accoppiamento in centro, quelli vanno bene ma non rendono davvero quella città così diversa da qualsiasi altra io abbia visitato. Palermo è divertente perché ha una storia vivace e un’anima sanguigna ma allo stesso tempo stravagante, manifestamente esotica e privatamente esoterica. Tutto questo poi è compresso in una dimensione urbana che mi è molto congeniale, che non è quella della metropoli e che mi invoglia ad avventurarmi.
Se mi chiedi di raccontarti tre cose in particolare che mi piacciono di quel posto, lo faccio subito:
1) Per quanto strano ti possa sembrare se ti immagini in ciabatte sul lungomare di Mondello, Palermo è una città lugubre. È fuori discussione che ogni palermitano, subito dopo avere appreso i rudimenti naturali della vita, tipo camminare su due zampe e parlare, impari tutti i punti in cui hanno ammazzato qualcuno durante gli anni delle stragi. In questo modo cresci con questa idea, molto sottile e per nulla invadente, di essere circondato da spettri. E non è solo per la storia più recente che ti fai questa idea, perché Palermo è tutta intrisa di un’iconografia funeraria con la quale sembra convivere con grande serenità e naturalezza: dal famoso affresco del Trionfo della Morte, che non si sa ancora chi l’abbia fatto ma che è uno dei miei preferiti in assoluto, con quella Morte beffarda che sfreccia a cavallo e si prende tutti, i potenti e i poveracci, alle catacombe dei Cappuccini dove pendono in bella vista centinaia di corpi imbalsamati, che venivano così disposti, con tutti i vestiti, per ricevere la visita dei familiari nel giorno dei morti, giorno in cui tradizionalmente si preparano dei biscotti a forma di ossa e in cui i parenti defunti si trasformano in una versione cadaverica di Babbo Natale e, disturbati dal loro meritato sonno eterno, sono condannati a portare i regali ai pargoli dei loro vivi. Io una volte ricevetti un giocattolo che avevo già e lo feci rispedire nell’oltretomba. Da quel momento, io e i morti non ci rivolgiamo la parola.
2)Il cinema di Ciprì e Maresco, che è la prima cosa che consiglierei a chi volesse farsi un’idea spietatamente sincera di questa città e della Sicilia in generale. Non rientrerà sicuramente negli aspetti meno conosciuti di Palermo ma credo che guardare o riguardare quei film e quei corti dopo o durante un’esplorazione approfondita della città, possa aiutare a sugellare con essa una relazione d’amore indissolubile. Ovviamente, sia nei film che nei lavori per la tv puoi leggere un trattato universale sulla condizione umana, ma con il filtro plateale di due palermitanissimi e del loro esercito di attori improvvisati, presi dalle fila della Palermo più intestinale: i famosi subumani di Cinico Tv o de Lo zio di Brooklyn, che vagano randagi, in preda a istinti primordiali e costantemente braccati dalla voce fuori campo che li intervista, in una Palermo post apocalittica in bianco e nero, fuori dal tempo, desolata e preistorica, un po’ onirica ma saldamente ancorata alla brutalità della realtà. C’è tutto il pessimismo siculo di cui forse a volte ci si dimentica, là dentro, ma anche un’ottima dose di comicità caustica e grottesca.
3) C’è un periodo storico che in salsa palermitana acquista tonalità e contrasti molto singolari e che mi piace sempre approfondire: quello della Belle Époque, a cavallo tra i due secoli passati. In quel periodo a Palermo, si muovevano dei personaggi fuori di testa della ricchissima borghesia imprenditoriale, che non perdevano occasione per scialacquare il loro enorme patrimonio con atti di edonismo sfrenato o di mecenatismo artistico e architettonico e che consegnarono alla città alcune delle sue sfumature più tipiche. Dai Florio, con le loro ville in stile Liberty che sembrano il setting di una favola extraterrestre e che in seguito sono quasi tutte esplose con la speculazione edilizia, ai Whitaker, inglesi trapiantati in Sicilia, ossessionati dagli uccelli. La moglie di uno di loro aveva una passione specifica per i pappagalli e, come se non le bastasse portarne sempre uno vivo sulla spalla, rilevò una grande villa antica che si affrettò a disseminare di statue e affreschi a tema pappagalli, oltre che di due campi da tennis privati e un giardino segreto al quale si accedeva per mezzo di una chiave d’oro. Il personale di servizio era costituito prevalentemente da banditi e mafiosi d’ogni sorta, coi quali c’era un losco sodalizio, e pare che una volta da questa villa (o forse da un’altra di proprietà della stessa famiglia) volò fuori per strada una mano mozzata. Oggi quella villa è uno sputo di giardinetto pubblico, con una vasca d’acqua melmosa in cui sguazzano i topi e non c’è neanche l’ombra di un pappagallo. L’anno scorso a un certo punto è arrivato un airone, ma è morto dopo poche ore in circostanze misteriose.
Da quali spunti e basi è nata l’idea di Benvenuti a Lalaland? Come hai lavorato alla costruzione della storia e dei personaggi? Cosa è cambiato nel corso della lavorazione rispetto agli esordi del progetto? Quale un elemento di cui sei particolarmente felice e qualcosa che ora non ti soddisfa appieno?
È il risultato di alcune idee che avevo raccolto per qualche anno. All’inizio doveva essere una raccolta di storie brevi, senza un contenitore e un filo conduttore ben preciso, poi ho ripescato da alcuni miei desideri la voglia di creare un universo narrativo comune a tutte le storie ed è nata Lalaland, con la città di Solpensiero e l’idea dello sciame invasore a fare da collante. Del progetto originale è rimasta solo la storia di Qwerty, quella del primo volume. Quando avevo gettato le basi per Lalaland, era ancora quella dei racconti brevi la strada che volevo seguire, e infatti il primo volume è rimasto fedele all’idea originale. Quando ho cominciato a sviluppare il suo seguito, ho realizzato che quell’avventura nella foresta non poteva comprimersi in un numero di pagine così esiguo. A conti fatti, anche il volume 2 non è particolarmente lungo ma a un certo punto ho dovuto chiudere i rubinetti, perché non volevo che si percepisse uno stacco troppo netto col primo volume e per evitare di farmi travolgere da quella storia, che stava straripando. Mi sa che non c’è niente che non mi soddisfi di quei due fumetti, sono realizzati col massimo del carburante che avessi nel mio serbatoio in quel momento e rappresentano il compimento di tutti i desideri che mi ero prefissato. Sono scritti e disegnati con ogni organo del mio corpo, non riesco a trovargli dei difetti, solo delle ingenuità fisiologiche. Questo è ovviamente molto diverso dal dire che adesso li rifarei nello stesso modo, adesso non li farei proprio forse. Ma che importa? Sono già nel mondo a fare bagordi.
In origine, come hai legato l’idea dell’invasione degli insetti alla vita quotidiana dei personaggi e del protagonista? C’è stato qualche riferimento in tal senso, una qualche notizia che ti ha dato lo spunto, oppure è stata un’idea improvvisa?
Ero ossessionato dagli insetti dalla visione de Il Pasto Nudo di Cronenberg. Mi piaceva quel malsano sodalizio tra gli insetti e le droghe e volevo creare anch’io una sostanza allucinogena in grado di alterare le percezioni degli adolescenti di Lalaland in preda agli ormoni. Le mie api producono questa sostanza, come le api vere fanno il miele. L’idea dello sciame invasore, che piomba sulla città come una piaga biblica, viene ovviamente da una vastissima filmografia che va da Gli Uccelli alle commedie horror degli anni ottanta come Gremlins, senza tralasciare tutta la sterminata produzione di B Movies in cui l’umanità viene ripetutamente invasa da tutto il bestiario mondiale esistente e non, in formato gigante. Io però volevo che la mia invasione non si risolvesse in una carneficina caciarona, quindi le api che sciamano su Solpensiero sono apparentemente innocue, voraci come mosche o scarafaggi ma prive di qualsiasi istinto predatorio. È quando cominciamo a conoscere la psicologia dei personaggi di Lalaland, che la presenza di queste creature aliene si fa pulsante.
A mio parere hai dimostrato un grande controllo della regia e del racconto con il tuo lavoro. Penso banalmente all’inizio di Benvenuti a Lalaland Vol. 1, o alla chiusura. Quali i tuoi maestri in tal senso, a livello di fumetti e illustrazioni (quindi anche nella composizione spicciola della tavola)? Come hai poi lavorato alle tavole, alla costruzione della storia e alla regia dei due volumi?
Mi piacciono le storie che seguono delle strutture circolari. Questo trucco credo di averlo preso dal cinema, mi rassicura. Il secondo volume, ad esempio, è un tripudio di cerchi, sia concettuali che grafici. Probabilmente ero ammalato di cerchi, stavo sempre col compasso in mano. Mentre lavoravo a Lalaland, ho riletto Black Hole di Charles Burns e la trilogia di X’Ed Out e il Little Nemo di Winsor McCay, che dopo un secolo riesce ancora a prendere a sberle tutti, impietosamente. Questi sono alcuni dei fumetti che hanno contribuito in modo strutturale alla realizzazione di Benvenuti a Lalaland, per tematiche e soluzioni grafiche e registiche, ma non meno importanti sono stati GON di Masashi Tanaka e i fumetti di Jim Woodring, dai quali ho imparato come far funzionare una storia a fumetti a prescindere dai testi. In effetti, Lalaland ha molti più storyboard che pagine di sceneggiatura e dialoghi, perché le mie storie si sviluppano su una serie di concatenamenti grafici. Ci sono certi passaggi in entrambi i fumetti che di sicuro non sarebbero esistiti se avessi scritto una sceneggiatura in modo canonico.
Dal punto di vista della didattica, gli ultimi anni hanno visto un incremento notevole nella proposta delle varie Scuole di Fumetto e corsi di vario genere. Cosa ne pensi a riguardo? Hai avuto esperienze dirette o testimonianze di cui ti fidi relative a qualche proposta simile?
La Scuola del Fumetto di Palermo è stata una buona palestra ma non mi sentirei di consigliare un simile percorso ad ogni singolo aspirante fumettista, come una scelta necessaria per chi volesse fare questo lavoro nella vita. Questi corsi possono fornirti tutte le risposte di cui hai bisogno o confonderti terribilmente, perché solitamente chi vi insegna non è propriamente un insegnante di fumetto ma uno che i fumetti li fa e che quindi ha una sua visione personalissima di come fare fumetto, maturata col tempo e con l’esperienza diretta, e che con tutta la volontà possibile difficilmente riuscirà ad accantonare in favore di una visione più ampia. Dipende, credo che valga sempre la regola del buon approfondimento extracurricolare, della curiosità vorace.
I tuoi mezzi: cosa usi, cosa preferisci or ora e qual è uno strumento del tuo passato a cui eri particolarmente affezionato e hai abbandonato strada facendo? Sempre dal punto d vista tecnico: quale una sperimentazione che vorresti fare in futuro?
Quel che ho abbandonato, non lo rimpiango: parlo di un uso massiccio e insano del digitale. Chiaramente ogni tecnica è nobile, se usata con sapienza, ma quando realizzavo i fumetti e le illustrazioni completamente in digitale, ero costantemente insoddisfatto e un po’ nauseato. La relazione tra la tecnica digitale e il mio cervello, infatti, era inquietantemente morbosa e mi stava conducendo verso un segno fin troppo manierato, rigido, a costanti ripensamenti e modifiche superflue. Alla quasi totale non accettazione dell’errore. Il pugnale leggendario che usavo per infliggermi queste pene prende il nome di Ctrl+Z, che per ogni addetto ai lavori è ben più di una mera scorciatoia da tastiera. Per guarire da questo morbo, ho ripreso in mano la materia: fogli, matite e pennarelli, affidando al digitale solo il colore, che ho ridotto via via fino all’essenziale. Ora è tutto più sincero e divertente e sono sicuro che adesso, se lo volessi, potrei tornare al digitale utilizzando finalmente un po’ di capoccia. Penso che in futuro continuerò ad esplorare l’ibridazione tra diverse tecniche, una cosa che ho provato a fare nel primo Lalaland e che avrei voluto ripetere nel secondo volume, solo che poi non ho trovato le giuste motivazioni.
A un primo sguardo, devo dire che il primo a venirmi in mente è stato Massimo Mattioli, autore di Pinky e Squeek the Mouse, per me ammetto formativo, da giovincello. È una mia pura fissazione o hai avuto modo di incrociare e apprezzare le sue cose? In ogni caso, pensi ci siano stati particolari elementi o artisti che da bambino hanno segnato in maniera inconscia il tuo percorso?
Non sei il primo che fa questo paragone. In realtà, a parte fugacissimi (e piacevolissimi) incontri d’infanzia con Pinky ne Il Giornalino, i lavori di Mattioli non hanno avuto particolare rilevanza nella mia formazione. Di quel periodo là, certamente più Pazienza e Crumb. L’ovvietà, insomma. Da bambino mi nutrivo prevalentemente dei libri illustrati di Richard Scarry e di Tony Wolf, di Topolino e del mai troppo ricordato Prezzemolo, il fumetto sulla mascotte di Gardaland, e pensavo che il mio disegnatore preferito fosse Cavazzano. In verità era Luciano Bottaro ma ancora non lo sapevo. Poi, a circa 8 anni, trovai in edicola un albo di GON, che rase al suolo tutto quello che pensavo che fosse il fumetto. L’impatto di quella scoperta fu talmente devastante che, in preda a una confusione furiosa, presi delle matite colorate e colorai alcune pagine di GON. Non ritenevo accettabile l’esistenza di un fumetto in bianco e nero, cercai quindi di rimediare personalmente, applicando il metodo “albo da colorare” su quell’anarchico, bellissimo, fumetto pieno di muto cinismo e di una brutalità per me inedita. Da GON a Dragon Ball (per me vale solo il primo, quello che fa anche ridere), il passo fu brevissimo. Le ossa sul segno, invece, me le sono fatte ricopiando i personaggi che mi piacevano, dai fumetti, dai libri di illustrazione o dai manuali dei videogiochi del Super Nintendo e inserendoli all’interno delle mie storie, a fianco di una nutrita schiera di personaggi inventati da me, come Spid il verme e Cody l’anaconda cowboy.
Se hai avuto modo di vedere qualcosa a riguardo, cosa ne pensi di prodotti d’animazione quali Adventure Time, Steven Universe e compagni; prodotti, in teoria, per giovanissimi? Quale prodotti d’animazione consiglieresti a un tuo fan?
Non sono un grande fruitore di serie animate, temo di essere rimasto indietro. Ho visto qualche puntata di Adventure Time, Duck Tales, Gravity Falls e Rick&Morty ma in ogni caso, perdo interesse quasi subito. Credo che, almeno quelli che ho citato, siano tutti prodotti di altissima qualità, stratificati e intelligenti e che il lavoro di character design dei cartoni moderni sia sempre fuori scala e grande fonte d’ispirazione, ma ammetto di avere un problema con l’assenza della trama orizzontale. So che praticamente tutti questi prodotti, in realtà, un filo conduttore che lega le varie puntate autoconclusive ce l’hanno eccome, ma non riesco comunque a sostenere a lungo la visione d’insieme. L’unica serie che sono riuscito a completare, divorandola, è Over the Garden Wall, proprio per la sua estrema compattezza, per la scrittura, per le atmosfere che evoca e infine perché è una dichiarazione d’amore alle Silly Symphonies e ai cartoni dei Fleischer Studios , senza risultare però mai stupidamente citazionista e riuscendo a mantenere una sua voce fortissima.
Se non sono indiscreto, quante copie hai venduto con i due Lalaland? Inoltre, da un punto di vista strettamente economico e contrattuale, quale pensi sia mediamente la situazione dei fumettisti in Italia? Banalmente, di nuovo se non sono indiscreto, come sbarchi quotidianamente il lunario?
Entrambi i volumi sono andati abbastanza bene, ma non posso ancora acquistare quell’isola nel Pacifico dove passare serenamente la vecchiaia. Credo che quasi tutti gli autori di fumetto siano ben lontani dall’acquisto della propria isola, ed è meglio che si tengano alla larga dalla vecchiaia il più a lungo possibile. Penso che ci siano ancora ampi margini di miglioramento, saltando a piè pari l’editoria cialtrona e prendendo in esame solo gli esempi virtuosi, quelli degli editori che riempiono i loro autori di abbracci, ma che mentre lo fanno, vorrebbero anche infilargli delle banconote extra nelle tasche dei pantaloni. Non lo so, non ho una soluzione, queste domande me le faccio anch’io ogni giorno. Io sto imparando a strisciare come un polpo e ad infilare i tentacoli dove mi capita, con risultati a volte sorprendenti e a volte disastrosi, come quando ho fatto il cameriere, il facchino o le consegne a domicilio per i ristoranti cinesi. Tutte occasioni in cui ho dimostrato la mia assoluta incapacità di stare al mondo. Mi consolo sapendo che in giro è pieno di ottopodi e che non sono condannato a strisciare da solo.
La cosa migliore e la peggiore che hai fatto nell’ultimo anno? In qualunque senso tu voglia interpretare la domanda.
C’è una cosa che può considerarsi la migliore e insieme la peggiore dell’anno: ho partecipato al pellegrinaggio al Santuario del Divino Amore, a Roma. 6 ore di interminabile, fantozziana, marcia notturna che non mi hanno aiutato a trovare la fede ma che mi hanno fatto capire quanto siano gagliardi in realtà gli anziani quando si dedicano alle loro attività preferite. Non bisogna credergli quando dicono che gli fa male la schiena e si lamentano, è la noia. Sono sicuro che nessuno di loro abbia vomitato alla fine di quel cammino, come invece è successo a me.
©Daniele Ferriero