Massimo Bocchiola è probabile abbia tradotto un buon numero di libri ai quali siete molto affezionati. Paul Auster, Thomas Pynchon, Martin Amis, Vladimir Nabokov, Charles Bukowski, Irvine Welsh e molti altri rientrano nella casistica. Suo il lavorìo su quei linguaggi e traduzioni.
Peraltro, non pago della sua attività di traduttore, e dell'insegnamento universitario che ne è derivato, ha scritto di suo pugno diversi libri, che spaziano dal biografismo alle riflessioni metaletterarie, parlano delle storie distillate dalla Storia, si soffermano sulla saggistica anomala e sulle emozioni rivistate in prosa e poesia.
Ha ricevuto il Premio Nazionale per la Traduzione del Ministero dei Beni Culturali, nel 2000.
L'intervista è stata condotta nell'agosto del 2015, tramite la gentile intercessione di Einaudi, nella persona di Carla Polzot, ed è stata causata dal fascino particolare suscitato dal libro Mai più come ti ho visto.
Subentrata allora l'impossibilità della pubblicazione, lo scambio di mail vede la luce solo ora.
Partendo dal più puro e personale fanatismo, gradirei chiederle qualcosa a proposito del suo lavoro sui testi di Pynchon; le difficoltà, i brani che l'hanno colpita.
Sono arrivato a tradurre TP grazie a Ornella Robbiati, allora editor di narrativa alla Rizzoli. Naturalmente accettai con molta contentezza e qualche apprensione. Tentazione, ispirazione, dettate senza dubbio in primo luogo dalla sua sintassi. Frammentaria, parentetica, esprime il disordine delle cose, e soprattutto l’inganno della verisimiglianza. Esempi di difficoltà decisamente troppi, talmente tanti che non me ne è rimasta neanche l’aneddotica. Invece sul frammento scelgo: quello sull’Esposizione di Chicago (da Contro il giorno) che ho riportato nel mio libro. Gli orrori del Novecento, lo sterminio di massa tramite la tecnologia, prefigurati nel passaggio dai cowboys al treno per il trasporto delle mandrie ai megamattatoi. In una sola pagina geniale.
C'è stato qualche caso in cui ha ricevuto critiche profondamente negative? E quale pensa sia lo stato della critica in Italia; ci sono alcune figure tutt'ora attive che le sono care in tal senso, per esempio un Genna?
Critiche sterili e attacchi senza senso se ne trovano a iosa in blog e forum, luoghi deputati dell’insulto a ruota libera. Ma parlando di cose serie, in traduzione di solito la mattanza avviene durante la lavorazione del libro, con revisori ed editor. In questa fase ho sofferto in diverse occasioni. A denti stretti, devo ammettere che quasi sempre ho imparato qualcosa, a volte molto. Naturalmente esistono anche revisori, magari bravissimi, ma arroganti e sovrappositivi. E revisori che credono di saperne più di te, e non è così. Ma mi sto dilungando troppo: con quasi ogni libro che ho tradotto, le cose sono andate benissimo. Sui libri in proprio, francamente non so. Quest’ultimo è piaciuto, ed è stato molto recensito. Gli altri mi hanno forse qualificato come autore di nicchia. Non sarebbe male dire “di culto”, ma credo che la mia setta possa starci comodamente sulle panche di una chiesa di campagna.
Vedo che già conosce Giuseppe Genna. Ha entusiasmo, generosità intellettuale, visione.
In quale ambito lei crede si sia verificata (o continui a verificarsi) la differenza, la perdita maggiore, o il guadagno, nelle traduzioni? Crede poi che qualche traduzione italiana particolarmente felice possa aver facilitato la ricezione positiva di qualche autore (penso a I. Welsh, per dirne di uno non a caso)?
Il bello è che sì, il libro è sulla traduzione, ma nel titolo pensavo soprattutto alla memoria. L’ambito in cui qualunque traduzione fallisce è il contesto. Qui il fallimento è istituzionale, statutario, anche se naturalmente l’ampiezza del fallimento dipende dai fattori più vari: storici, geografici, stilistici, culturali ecc. Premesso che l’originale, se si propone come opera d’arte, è sempre perfetto anche quando è mal riuscito, i casi in cui “oggettualmente” una traduzione riesce “più bella” sono innumerevoli. In particolare nella narrativa di genere. Un libro può essere scritto in modo sciatto ed efficace, ed essere poi affidato in un altro paese a un traduttore raffinatissimo.
Sulla ricezione. Le mie traduzioni da Welsh hanno indubbiamente più fans che detrattori, ma qui credo che Trainspotting (il libro, che non ho tradotto io, ma forse ancora di più il film) hanno avuto un effetto di trascinamento determinante.
Una traduzione fluida e accattivante giova sempre alle sorti di un libro. SE poi sia tipologicamente (non voglio dire “filologicamente”, perchè parliamo di autori attuali) la migliore, è da vedersi.
Quale lo stato della professione del traduttore, in Italia?
La prima, più brutale risposta che viene spontanea è che rispetto alle iniziative di paesi che ho frequentato e frequento (Gran Bretagna, Francia) ci sono meno soldi. Gli inviti da parte di enti e università sono frequenti, i contesti interessanti, molti colleghi anche più giovani veramente bravi. Ma la burocrazia dei rimborsi e dei “gettoni” è spilorcia e lentissima, si equivoca spesso furbescamente sulla disponibilità intellettuale e sulla nobiltà del volontariato.
Molta, l'erudizione di Mai più come ti ho visto. Cosa pensa del suo lettore potenziale?
Devo ammettere che si tratta di un libro rivolto a un pubblico con specifici interessi. Chi segue professionalmente le questioni della traduzione può leggerlo più facilmente. Tuttavia credo di poter dire che sia abbastanza fruibile da chi ama la lettura. Perchè è soprattutto un libro sull’intertestualità e il ricordo del testo, e il gioco di specchi fra questi e la vita “reale”.
Come si è sviluppato, negli anni, il suo lavoro? Quali gli autori di qualsiasi tempo, luogo e linguaggio sui quali le piacerebbe lavorare?
In genere, soprattutto nella decina d’anni in cui avevo smesso di insegnare al liceo e non avevo ancora cominciato a farlo in università, prendevo in una parola quello che mi davano. Io mi sono laureato in Lettere, da filologo romanzo, e ho imparato l’inglese da solo. Sono stati l’occhio dei miei referenti editoriali e la mia scrittura italiana a costruirmi come traduttore.
Oggi – più che altro e con qualche vistosa eccezione – traduco i miei autori di una vita: Pynchon, Auster, Welsh. E traduco poesia.
Alla seconda parte della domanda potrei rispondere: un’infinità. Ma dico un libro. Il Master di Ballantrae di RL Stevenson.
Qual è il suo rapporto con la poesia? Invece, chi crede stia lavorando a dovere nell'interstizio tra prosa, poesia, traduzione e critica?
Rispondo al volo. Tradurre poesia è per me il più bel piacere intellettuale. E, certo, a volte anche fisico, sebbene qui la concorrenza della scrittura in proprio sia molto forte. Quanto al resto, amo molto la saggistica che propone il valore dei propri contenuti, ma anche la forma in sé, ritmo e gli echi epici o lirici. Dovendo fare il nome, dico il miglior Simon Schama.
Con Mai più come ti ho visto, sorta di saggio-memoir, riflessione ondivaga, esercizio di memoria, manuale critico e biografico e via dicendo, qualcosa è cambiato? E ha ricevuto qualche commento che l'ha particolarmente colpito?
Mah, un po’ sì. Lo scorso anno era uscito un gemello di Mai più... che potrei definire, se mi perdonate, autobio-fiction. Questo era di fatto Il treno dell’assedio (Il Saggiatore, 2014). Per l’appunto dal Saggiatore e con la spinta vulcanica di Genna. Era un romanzo-saggio lirico, e non ha praticamente avuto recensioni.
Invece la traduzione in questo momento suscita molto interesse, è quasi di moda. Mai più mi ha procurato tanti inviti a festival e convegni in un anno quanto tutti i miei libri precedenti messi assieme. Molto gratificante la recensione di Culicchia, ma se devo dire la verità la definizione di “meraviglioso” che ha dato del libro Marco Filoni su Repubblica ha scosso anche la mia innata modestia.
Tra i suoi libri, quale pensa sia stato il suo risultato più alto, o che semplicemente tende a convincerla e piacerle di più? Cosa pensa, invece, dei fili rossi che paiono abitare le sue opere e ritornare? Quali, le critiche che con l'occhio d'oggi si sentirebbe di fare al suo lavoro? Può anticiparci qualcosa sui prossimi libri, traduzioni, narrativa, saggi o quant'altro?
Non so se Mai più come ti ho visto sia il migliore, ma è il più riuscito, il più compatto e nel complesso comunicativo. Tra i libri di poesia non saprei scegliere: ci sono testi a mio avviso buoni sparsi nelle tre raccolte. Mortalissima parte (Guanda, 2007 nda) però è il più chiuso e irto, c’erano troppi contenuti emotivi e l’esito tende a respingere il lettore. Un problema anche del Il treno dell’assedio, temo. I libri di storia mi piacciano, in assoluto preferisco Canne - Descrizione di una battaglia (Mondadori, 2008 nda).
Fili rossi. Sono tra gli scrittori che scrivono sempre lo stesso libro. Storia famigliare e grande Storia, guerra, sport, musica. Soprattutto ricordo. Congenita inadeguatezza a inventare un racconto.
Critiche. In sostanza, non sapevo l’inglese bene come adesso. E da autodidatta residente tra i risi e le bonarde, penso di dover fare ancora un po’ di strada.
Traduzioni: sto lavorando su un megaromanzo di un esordiente americano che non passerà inosservato. L’autore si chiama Garth Frisk Hallberg (si parla qui di Città in fiamme, edito con successo di pubblico ed esposizione mediatica da Mondadori nel 2016 nda). E aspetto per l’inverno il prossimo di Irvine Welsh.
Di mio, sto componendo un album di prose brevi. Ricordi, raccontini, riflessioni. Sono sinceramente curioso di vedere che cosa salta fuori.
Se la tradizione non è emulazione ma materia viva e lingua pulsante, mentre la traduzione può diventare un'eco del passato, superare il tempo, tentare d'ingannare l'ultima, definitiva, traduttrice, cioè la morte, dove si incontrano dunque la traduzione e la tradizione? C'è, esiste, esisterà mai un testo, una vita del tutto chiusa all'interpretazione e all'altro?
Temo proprio che il contesto sia un ostacolo non valicabile. Nemmeno dal Chisciotte del Pierre Menard borgesiano.
©Daniele Ferriero