Per una ipertrofia della reazione interna

Intervista a: Andrea Zandomeneghi

Nel libro di Andrea Zandomeneghi si agita, convulso, il senso intimo e psichico di una frana tutta interna all'essere e alla mente.
È l'ossessione di chi precipita, dopo bagordi alcolici, traumi, celafee, ombre tetre e insoddisfazioni permanenti, nel fondo cervellotico della propria stessa esistenza.
Ne Il giorno della nutria, per la collana di narrativa di Tunué, questa caduta si trasfigura con somma immediatezza nella caduta primigenia di chiunque fatichi ad adattarsi al quotidiano tormento. Chiunque cerchi di sfuggire alla norma e inciampi a ripetizione, sfondando clavicole mentali e disagio borghese.
Si tratta di una disfatta, forse, condotta da Zandomeneghi con piglio colto e iperconsapevole, dardi avvelenati in ogni direzione e futili, sublimi e importantissime, divagazioni.
Un lavoro che richiede dedizione e pazienza, ma ripaga dimostrandosi l'unicum di pensiero, sintassi e lessico che, invero, è.
Se amate la sperimentazione e il grottesco, è consigliato a viva forza.

 

Il tuo libro rivela una miscela di sublime e triviale, cultura del tutto pop e di massa & elitaria e ricercatissima. Senza moralismi. La tua vita culturale e la tua persona si rispecchiano in questa attitudine? In tal caso, ci sono invece oggetti mediali che escono da questo quadro e ti hanno influenzato o, persino, cambiato la vita?

La miscela di sublime e triviale, cultura pop e ricercatissima, è funzionale anzitutto all’impostazione endoletteraria del testo: c’è una forte contaminazione del romanzo con la satira menippea. Le caratteristiche di quest’ultima – che in me sono allignate per il tramite di Dostoevskij, Bachtin, Petronio e Rabelais – sono: carnevalizzazione (ribaltamenti, mondanizzazioni, oscenità, vita tolta dal suo «normale binario» che diviene «vita al rovescio», libero contatto familiare tra uomini, abolizione della gerarchia, idee concreto-sensibili e ritual-spettacolari), libertà d’invenzione filosofica e narrativa, presenza di situazioni eccezionali per provocare e sperimentare l’idea-parola filosofica (personaggi che salgono in cielo, che vanno negli inferi o sulla luna o sul Monte Amiata montagna cosmica), combinarsi del simbolismo mistico-religioso con un estremo naturalismo sordido, sincresi di nude e vive posizioni ultime sul mondo mondate dagli orpelli accademici, raffigurazione di stati psichico-morali inconsueti e anormali (follia di qualsiasi tipo, sdoppiamento della personalità, visioni oniriche), scandali e comportamenti eccentrici (rottura dell’integrità epica e tragica del mondo, distruzione del corso normale e decoroso delle vicende umani, liberazione dell’uomo dalle norme che ne predeterminano il comportamento), largo uso di inserti eterogenei (novelle, diari, lettere), pluralità di stili, carattere pubblicistico e giornalistico e feuilletonistico (presenza di figure contemporanee, di polemiche scottanti di natura filosofica, artistica, scientifica, religiosa), elasticità e plasticità che consentono l’accoglimento di altri generi (diatriba, soliloquio, simposio). Questa impostazione – prescindendo ora dai profili estetici pur fondamentali – consente uno scavo nei personaggi e nelle idee (e una rappresentazione dei personaggi e delle idee) che non conosce altri limiti che quelli della più sfrenata fantasia.

Sì, la mia vita culturale e la mia persona si rispecchiano in questa attitudine alla commistione di pop e elitario. La realtà antropica – la comprensione della quale è da sempre il mio pallino – tende a disvelarsi meglio in presenza di forti contrasti, viene come spremuta dai materiali culturali antitetici– che sono inevitabilmente strumenti di interpretazione e quindi di costruzione dei significati – come fosse un testimone reticente. Dal punto di vista esistenziale questo si traduce nella volontà di sperimentazione (su me stesso: per poterli utilizzare vanno assimilati e accomodati) di paradigmi culturali lontanissimi e quindi nel progressivo accumulo di un vasto patrimonio intellettuale ed esperienziale.

Un oggetto mediale che ha influito con forza su di me è costituito dalle registrazioni delle lezioni (qui) del corso di mistica laica di Luigi Lombardi Vallauri. Molto significative sono le vie dell’eliminazione di ogni formazione mentale per il tramite della meditazione, in particolare quella sul respiro.

In Il giorno della nutria c’è l’impressione di uno scavo mentale continuo, un andare a fondo nei processi mentali. Non temi il lettore si perda, o non capisca questi percorsi? E perché questa scelta, è deliberata o il frutto semplice della tua scrittura?

La scelta è deliberata: nel libro gli accadimenti sono principalmente mentali, di qualunque cosa succede s’investigano le reazioni psicologiche e pneumatologiche. Le ipertrofiche reazioni interne sono più importanti dei fatti esterni, è come se li divorassero. Hai ragione nell’individuare una criticità nella tortuosità dei processi mentali che è poi amplificata dalla sintassi smodatamente ipotattica e fortemente parentetica. Scrivendo e poi revisionando il testo ho individuato tre parti che presentano una complessità tale da avermi fatto dubitare di inserirle: il non-cognitivismo euristico di Don Stefano, il discorso sul riduzionismo e in particolare sul concetto di anima nella contemporaneità, la presentazione della storia e delle patologie di Eufemia. Più che dai concetti e dal lessico (non conoscere delle parole e andarsele a cercare è alla portata di tutti e si traduce in un arricchimento) le difficoltà dipendono come accennato dai costrutti arditi. Il lettore va rispettato, senza dubbio, ma non va neppure considerato un bambino. Non temo che non riesca a capire: se un poco si impegna capisce, il libro richiede un minimo di impegno, è vero. A volte può richiedere di essere riletto in alcuni passaggi, ma in definitiva credo mantenga una leggibilità accettabile.    

A seguire la precedente: proprio per questo si tratta di un romanzo molto cerebrale e ossessivo. Da cosa credi ti sia derivata questa necessità, al di là di letteratura e scrittura, e dove pensi ti abbia condotto (o possa condurti)? Eri consapevole che questo sarebbe stato l’esito? Oppure, cosa ti ha sorpreso o cosa hai scoperto, una volta chiuso il libro?

Il testo è cerebrale perché la testa (è anche l’immagine di copertina) del protagonista è il fulcro stilistico e narrativo del romanzo: l’intero libro può essere letto come un esperimento mentale: annotare minuziosamente cosa passa per la testa in un singolo giorno a un individuo che trova qualcosa di assurdo – una nutria spellata e congelata – sul pianerottolo di casa. Ogni reazione è acuita e amplificata dalle peculiari caratteristiche di un protagonista che soffre di cefalea cronica, è ossessivo, ha un rapporto compulsivo con la cultura, è in preda ai postumi di una grande sbronza. 

L’ossessione – obsessio -onis «assedio», da obsidere «assediare» – è l’assedio delle formazioni mentali. Le idee ossessive costituiscono uno psichismo parassitario, il soggetto le critica ma non riesce a liberarsi di loro. Una rappresentazione (un’idea, un ricordo, un’immagine sessuale, un interrogativo metafisico o religioso, un dubbio su un evento) irrompe nella coscienza e vi persiste anche se il soggetto la ritiene assurda e cerca di liberarsene considerandola estranea, pur sapendo che deriva dalla sua attività psichica. Il soggetto avverte questi atti mentali come intrusivi e ne riconosce il carattere patologico. Questa è l’ossessione come nevrosi, l’ossessione nel DOC, ma più in generale l’ossessione è una modalità mentale. Un esempio di ossessione come modalità mentale si riscontra chiudendo gli occhi e concentrando l’attenzione sull’inspirazione e sull’espirazione: comparirà una selva di formazioni mentali che tentano di imporsi sulla coscienza, man mano che si manifestano bisognerà lasciarle scorrere e accompagnarle fuori dallo spettro dell’attenzione. Un altro caso di ossessione come modalità mentale è quello delle lacune della memoria dopo un’ubriacatura: nell’insania e nel senso di colpa latente dei postumi si cercherà affannosamente e con angoscia di riempire le voragini mnesiche.

L’ossessione è correlata alla satira menippea, non solo perché – in quanto alterazione della coscienza – è un topos del genere, ma anche e soprattutto perché rappresenta una modalità di pensiero che pone il soggetto che la vive in condizioni estreme (impostazione tipica della menippea) e in tali condizioni le idee e i fatti vengono afferrati e spremuti con maggiore forza, si può attingere a un livello di nuda verità soggettiva più profondo. L’ossessione interroga e tortura le idee e i fatti finché questi non confessano. Da questo punto di vista l’ossessione è quindi un dispositivo narrativo che produce una forma di realismo ipertrofico: a tutto si appiccica e non lo lascia andare finché non l’ha esaurito. Molti dei capitoli della prima parte sono costruiti proprio così, prendendo in mano un oggetto qualsiasi – la stilizzazione, le conferenze di Galimberti, l’assedio di Minas Tirith – e tenendolo stretto finché non ha finito di parlare.

Cerebralità e ossessività – visto poi che gli oggetti non sono solo esterni ma anche interni – mi hanno condotto a scontrarmi con quell’universo abitato da complessi e tesori e aberrazioni mentali che è l’interiorità umana, mi hanno condotto precisamente dove volevo andare. La necessità di questo deriva dalla volontà di conoscenza: la mia passione per la letteratura discende da certe mie precoci intuizioni, mi resi conto nell’adolescenza di come l’unica cosa che veramente mi interessasse fosse il senso della realtà, giunsi poi alla conclusione che il senso della realtà (come anche il suo fondamento, la sua essenza, il suo essere) fosse una costruzione umana, ne conseguiva che l’indagine sul senso della realtà passasse per l’indagine sull’uomo, poi mi resi conto di come il migliore strumento di indagine sull’uomo fosse il romanzo. Scrive Hermann Broch che la sola ragione d’essere del romanzo è scoprire quello che solo un romanzo può scoprire, che il romanzo che non scopre una porzione d’esistenza fino ad allora ignota è immorale, che la conoscenza è la sola morale del romanzo. Aggiunge Milan Kundera che il romanzo è pervaso dalla «passione del conoscere» (quella passione che Husserl considera come l’essenza della spiritualità europea) che l’ha spinto a scrutare la vita concreta (dove non alberga la certezza, dove sorge l’impero delle contraddizioni, del dubbio, dell’interrogativo) dell’uomo e a proteggerla contro «l’oblio dell’essere»: la storia del romanzo è la storia delle sue scoperte.   

Nel protagonista sembra dominare, ed essere dominato, un narcisismo insistito e insistente, ubriaco di sé e di alcol; ma colpevole. Anzi, colpevolizzante. Nasce dal personaggio o dalla tua persona e personalità? È, insomma, un riflesso biografico o cos’altro?

Più che di narcisismo parlerei di senso di superiorità del protagonista. Il senso di superiorità è caratterizzato dal fatto di essere autoribaltante: qualunque senso di superiorità è anche un senso di inferiorità. Si tratta in verità di un senso di estraneità/alienità: il punto è non riuscire a instaurare e concepire rapporti paritari. Non si è mai allo stesso livello dell’altro.  Si tratta di una nevrosi che concerne l’adattamento. L’adattamento è disfunzionale eppure ha delle funzioni – come ogni adattamento, più o meno sano – che il personaggio di Dorota ha il compito di stanare. È Dorota che gli dice: «Ah ah, figuriamoci! Tu senza le tue dosi quotidiane di senso di superiorità che t’impermeabilizzano dal confrontarti con la comunità in cui vivi, con la storia, con il mondo, saresti appeso a un cappio da anni. Ecco, per sopravvivere hai bisogno dei vantaggi secondari del senso di superiorità. Anche quello in te è strumentale, falso, indotto, è uno dei tuoi antidoti per sopravvivere al veleno che per te è l’esistenza. E dico vantaggi secondari perché in voi tutto è malattia, e i vantaggi secondari si hanno nei confronti delle malattie: la cultura come malattia, il lutto come malattia, il senso di superiorità come malattia, la decrescita felice come malattia! Una malattia che vi dispensa dall’essere ciò che non siete in grado di essere. Guardate la vita, vedete che certe cose non avete voglia di farle, vi fa fatica farle, così trovate il modo di esserne dispensati. Voi non fate che costruirvi qualcosa di morboso al quale poi potete chiedere supplicanti di dispensarvi da qualcos’altro. Non affrontate nulla, ogni cosa è occasione per impetrare una cazzo di dispensa papale!»

Tutto questo non mi è estraneo.

Per l’occasione, ho consigliato il tuo libro a un amico che era in queste corde. Parlandone, questa la domanda che è venuta fuori: quanto ti possono aver influenzato Galimberti e Severino? In quali motivi e in che misura?

Sinceramente non mi hanno influenzato molto. Severino direi per nulla, se non in negativo: considero il suo pensiero delirante in senso deteriore. Alcune idee di Galimberti possono essere interessanti, ma non è una fonte troppo affidabile, soprattutto quando inventa etimologie. Di lui mi hanno influenzato il discorso sulla teleologia della storia, quello sul nichilismo europeo, quello sulla pazzia e il sacro, quello sul corpo.

La presenza dell’ironia: nel corso del racconto in un certo senso la si perde, o quantomeno si sfilaccia. Corrisponde all’evoluzione del personaggio o è stata la storia in sé a dettare il suo tempo?

È stato il personaggio – la storia è schiacciata sul protagonista, anzi sulla sua testa – man mano che andavo avanti a dettare il tasso di ironia presente nel testo, non s’è trattato di una scelta consapevole e volontaria. Comunque hai ragione, l’ironia è molto più presente nella prima parte del romanzo che nella seconda, più fosca.

L’ironia è anche un elemento necessario della satira menippea. 

Restando sull’ironia, qual è il peso che le dai, da narratore & da protagonista della tua vita, nel relazionarsi con la realtà?

L’ironia rende un po’ più sopportabile l’esistenza, relativizza tutto e lo vivifica. Senza ironia la vita oscillerebbe tra la noia e l’orrore.

Nulla aggiunge e nulla toglie, ma: quanto l’autobiografia ha trasfigurato la letteratura? E ci sono poi stati passaggi particolarmente complicati in tal senso?

Detesto parlare di cose che non conosco in prima persona, questo mi spinge a sperimentare molte cose. Ho attinto alla mia vita nella costruzione dei personaggi: Davide è la spina dorsale del romanzo, la narrazione è in prima persona, il dipanarsi della sua personalità – abnorme, ossessiva, allucinata – è ciò che tiene insieme tutto il resto. Il romanzo è nato con lui: ho iniziato a scriverlo immaginando un suo risveglio dopo una sbronza e seguendolo in tutte le sue attività; nella prima versione addirittura ogni capitolo corrispondeva a una sigaretta da lui fumata nel corso della giornata. Davide nasce da quattro esperienze fondamentali della mia vita: cefalea (dolore cronico, sua gestione e sue ripercussioni sulla vita), postumi di una grande sbronza (amnesia, malessere, angoscia), ossessione (l’assedio incoercibile delle formazioni mentali e il suo influsso contaminante sulla coscienza), rapporto compulsivo con la cultura (che invade e fagocita e struttura ogni aspetto del reale soggettivamente filtrato: proliferazione di citazionismo incontinente, di elencazioni morbose, di digressioni pseudoerudite, di estetismo linguistico).

Emanuele nasce da un racconto, anzi dall’incipit di un romanzetto che non ho poi mai scritto, imperniato sulla questione degli antichi astronauti, sulle teorie di Zecharia Sitchin sui sumeri e su quelle di Mauro Biglino sull’esegesi biblica. Mi interessai a questi argomenti perché un ragazzetto che frequentavo ne era imbevuto. Avevo iniziato a scrivere il romanzetto pensandolo come un esperimento di scrittura collettiva, lo condivisi su varie piattaforme web ma non ne scaturì nulla, così il progetto naufragò. Da quanto detto finora emerge con forza – mi sembra – una mia caratteristica: la riqualificazione dei materiali.

Esteban è il personaggio nato per ultimo (in una prima fase al suo posto c’era un enologo spagnolo di nome Sebastian) e viene direttamente da una mia esperienza personale: lo spiritismo yoruba di un mio giovane amico cubano. L’intero personaggio – lo confesso – è la trasposizione romanzesca di questo ragazzo, a partire dalle sue caratteristiche fisiche, passando per la sua sessualità e arrivando al verbale della seduta spiritica (che mi sono limitato a copiare).

Il prete, la badante e la madre invece non nascono da esperienze personali pregresse né sono stati catapultati nel romanzo da un testo precedente. Il prete nasce come una sorta di sdoppiamento di Davide, un sosia di Davide più anziano e con un differente bagaglio esperienziale. La badante, una specie di antagonista di Davide, nasce dalla lettura di un articolo on line sui vantaggi secondari dei disturbi mentali. La madre è un personaggio per me terrificante, un incubo incarnato, e francamente non ricordo come è nata, devo averlo rimosso.

Nell’immersione fortissima che sembri fare nella nostra cultura contemporanea, in tutte le sue forme e manifestazioni, quali sono i manufatti culturali, gli oggetti mediali o i momenti mediatici che ti hanno colpito con più forza, per un motivo o per l’altro? E perché?

Due momenti mediatici che mi hanno colpito molto sono state le due puntate (1994 qui, 1995 qui) del Maurizio Costanzo Show con Carmelo Bene come protagonista, incredibile la sua capacità affabulatoria e decostruttiva. I manufatti culturali che mi sono più cari sono i libri di Dostoevskij (soprattutto i quattro grandi romanzi), quelli di Schopenhauer (soprattutto il Mondo come volontà e rappresentazione e Sulla quadruplice radice del principio di ragion sufficiente) e quelli di Nietzsche (soprattutto La nascita della tragedia, Genealogia della morale,  L’anticristo e Il crepuscolo degli idoli). Come già detto, un oggetto mediale che ha influito con forza su di me è costituito dalle registrazioni delle lezioni (qui) del corso di mistica laica di Luigi Lombardi Vallauri.

Dal punto di vista strettamente letterario, una volta finito il libro, quale dei tuoi autori, delle tue influenze hai ritrovato con più forza tra le tue pagine?

Prima e più di tutti Roberto Bolaño, poi P. Roth, M. Schwob, Petronio, Huysmans, Mann ed Ellis. A livello di costruzione del discorso mi ha influenzato molto la prosa di due giuristi, il penalista Ferrando Mantovani e lo storico del diritto Paolo Grossi.

Mi pare che passi con scioltezza dalla filosofia alla letteratura; come si lega, o si è legato, questo all’esperienza di Crapula Club? E come è nata questa rivista, in che maniera ci hai avuto a che fare e quali i tuoi rapporti, oggi?

Sono stato uno dei direttori di Crapula che proprio in questia estate (30 giugno 2019) ha chiuso. L’esperienza di Crapula è stata sicuramente fondamentale ai fini del romanzo, per quanto avessi iniziato a scriverlo circa quattro anni prima di entrare nella rivista; ma probabilmente senza Crapula non sarei stato in grado di ultimarlo e revisionarlo. Anzitutto è stato essenziale il rapporto con gli altri condirettori, a ciascuno dei quali ho rubato qualcosa. Da Russo De Vivo ho imparato il rigore e la professionalità – da intendersi come il contrario del dilettantismo – nel lavoro sul testo. Da Zucchi ho imparato a gestire il connubio tra narrazione ed elementi intellettuali. Da Mignola ho imparato come utilizzare in modo esteticamente valido i materiali della cultura classica. Crapula è stata poi importante per altri motivi: perché mi ha connesso con la letteratura contemporanea italiana (io prima leggevo quasi solo classici e letteratura straniera, snobbando scioccamente le patrie lettere); perché m’ha dato l’occasione di confrontarmi in modo operativo con la scrittura altrui; perché l’editing continuativo sui racconti m’ha cresciuto e reso più smaliziato. Mi sono sempre mosso molto tra filosofia e letteratura, ma certamente l’approccio altamente speculativo di Crapula è andato a cronicizzare questa mia attitudine.

©Daniele Ferriero